Il territorio di Capolona è molto vocato alla produzione del tartufo e riveste un ruolo importante nel panorama regionale e nazionale. E’ accertata la presenza del Tartufo bianco pregiato (Tuber magnatum), del Tartufo scorzone (Tuber aestivum), del Tartufo marzuolo (Tuber borchii). Questi maturano in diversi periodo dell’anno e quindi l’attività di raccolta può prolungarsi per diversi mesi.
Quello che viene chiamato tartufo è il corpo fruttifero (carpoforo) di funghi epigei del genere Tuber. Questo nome non deve trarre in inganno; i tartufi non sono tuberi. Tuber deriva dal latino, “tuber terrae” che era il termine con il quale gli antichi romani chiamavano il tartufo. La parola si è trasformata poi in terri tufer, quindi terri tuffum fino ad arrivare a tartufum, e da questo il termine che oggi noi usiamo.
I tartufi sono il risultato della simbiosi del fungo con piante arbustive ed arboree. Piante e funghi hanno un vantaggio reciproco da questa unione; la prima cede sostanze nutritive e il secondo cede acqua e sali minerali. La specie fungina svolge il ruolo di apparato radicale ausiliario creando una maggiore superficie assorbente e in cambio riceve il nutrimento che da solo non potrebbe produrre. E’ qui che sta il vantaggio della simbiosi per entrambi gli organismi. Il fungo ostacola inoltre l’ingresso di organismi patogeni nelle radici e quindi svolge anchei un’azione protettiva nei confronti della pianta.
Le specie di piante che stabiliscono la simbiosi con il fungo posso essere varie: salici, pioppi, tigli, carpini, querce, faggi, pini, cisti e noccioli. I tartufi sono in grado di collegare gli apparati radicali delle piante, appartenenti anche a specie diverse e una singola pianta può essere micorrizata da diverse specie fungine contemporaneamente.
Il ciclo di formazione del tartufo dura circa 8 mesi. Esso inizia, come per tutti i funghi, con il rilascio di spore; queste hanno dimensioni nell’ordine del millesimo di millimetro e una forma ellissoidale o globosa. Dalle spore si sviluppano delle ife (filamenti cellulari) che creano il micelio detto primario. Questo si accresce nel terreno e quando ne incontra un altro si ha una fusione con la creazione del micelio secondario.
Questo nuovo micelio si espande nel terreno alla ricerca delle radici della pianta ospite. Se non le trova in tempi brevi esaurisce la riserva di nutrienti e muore. In caso l’incontro avvenga, le ife si avvolgono intorno agli apici radicali (le punte delle radici più sottili) dando luogo alla micorrizza (da qui il termine simbiosi micorrizica). Sembra che la pianta produca sostanze che stimolano l’avvicinamento del micelio. Le radici micorrizate hanno una forma a clava e sono facilmente riconoscibili; in queste si creano dei glomeruli di micorrize con una notevole biomassa. A partire dai mesi di aprile-maggio, se le condizioni climatiche sono favorevoli, può avere inizio la fruttificazione con la comparsa dei primordi dei carpofori.
Il tartufo, una volta maturo, si stacca dalla pianta e inizia a vivere in maniera autonoma, assorbendo le sostanze organiche dal terreno. Il carpoforo, a piena maturità, può avere dimensioni che variano da quelle di una nocciola a quelle di un’arancia; esso emana un odore caratteristico dovuto principalmente a composti solforati.
Il tartufo deve disperdere le spore e ciò avviene con la marcescenza oppure grazie agli animali che se ne nutrono (soprattutto cinghiali). In questo caso le spore vengono liberate con le deiezioni.
Soltanto nell’800 si capì cosa realtà fossero e come si formassero i tartufi notando che il micelio tartufigeno si sviluppa nel terreno a stretto contatto con le radici delle piante.
Il carpoforo, ovvero il tartufo raccolto, presenta una scorza esterna (peridio) che può essere liscia o rugosa, di colore chiaro o scuro, e una polpa interna (gleba). Questa può avere un colore variabile dal bianco, al marrone, al grigio, al rosa e mostra delle striature dovute all’alternanza di ife chiare e scure che ne conferiscono un’apparenza “marmorizzata”. Le striature chiare sono ife sterili (che non producono spore), mentre quelle scure contengono ife fertili, specializzate per la riproduzione. Nella parte fertile vi sono gli aschi, minuscole strutture globulari contenenti le spore.
Le caratteristiche della scorza e della polpa, insieme alle dimensioni e all’aroma, permettono di identificare la specie di tartufo. A volte è necessario osservare forma e colore delle spore per arrivare al riconoscimento.
L’uomo è sempre stato attratto dai tartufi, per le particolari note sensoriali e per la difficoltà di raccolta. Già all’epoca dei Babilonesi, Egizi e Sumeri, i tartufi erano considerati qualcosa di molto prezioso. Nel corso della storia sono stati elevati spesso a simbolo di ricchezza ed opulenza ed hanno avuto il posto d‘onore sulle tavole di nobili, Papi e famiglie reali. Il loro aroma è stato considerato una sorta di “quinta essenza” capace di provocare effetti estatici.
La loro origine è rimasta ignota fino al XIX secolo. In antichità venivano considerati “piante imperfette”, perché privi di radici, foglie e fiori oppure frutto dei fulmini scagliati dagli dei. Nel Medioevo si attribuiva ai tartufi origini demoniache, tanto che venivano definiti come “sterco del diavolo” o “cibo delle streghe”. Lo studio delle caratteristiche fisiologiche ed ecologiche del tartufo prosegue tuttora e restano ancora diversi aspetti da chiarire.
I tartufi subiscono effetti dai cambiamenti climatici e dal sovrannumero di cinghiali. Vi sono poi anche pressioni antropiche dovute all’aumento dei cercatori, le mutate tecniche di gestione dell’agricoltura e della selvicoltura, lo sviluppo delle infrastrutture urbane e viarie.
A partire dagli anni ’60 del secolo scorso si è potuto perfezionare un metodo per ottenere piantine micorrizate e quindi avviare la coltivazione del tartufo. Una tartufaia coltivata entra in produzione dopo il quinto-sesto anno tuttavia questa diventa commercialmente interessante solo a partire dal decimo anno.